Il Rorschach silenzioso
Tommaso Caravelli
Nei molti anni di lavoro con il test non sono mancate richieste di valutazioni che si sono poi successivamente rivelate molto strane e atipiche, talvolta fatte da soggetti tanto particolari da destare inizialmente curiosità e non di rado poi forme di sospetto, inesorabilmente confermate.
Tra tutte, mi capita spesso di ricordare e citare agli allievi che incontro il caso di una consulenza di parte richiestami da un uomo di circa 40 anni che mi contattò telefonicamente chiedendomi un incontro per la necessità di intentare una causa lavorativa che poteva prevedere la somministrazione di test per poter sostenere tale tesi. Alla domanda di prassi su chi lo avesse indirizzato da me mi riferì che aveva preso il numero telefonico su internet, visitando il sito del mio Istituto.
Non sono poi tanto rare chiamate di persone che appunto, più o meno casualmente, arrivano sul nostro sito e chiamano attratti dal termine “forense” e “test”, cercando sostegno per le più disparate cause. Nella maggior parte dei casi il tutto si risolve in un’unica chiamata nella quale una volta esposti i presunti abusi subiti, e per questo rassicurati, chiudono la telefonata e rimandano ad un possibile e futuro appuntamento.
Nel caso che voglio raccontare, riferito con le necessarie variazioni precauzionali rispetto ai fatti originali, accaduto molti anni fa ma rimasto impresso nella memoria per il protocollo Rorschach che ne è seguito, ad un primo contatto in cui genericamente la persona mi ha esposto un problema di mobbing, ne è seguito un secondo con richiesta di appuntamento. Giunge all’incontro un uomo di circa 35 anni, curato nella persona con abbigliamento casual, contenuto nei modi e dall’eloquio inizialmente molto controllato nell’esporre la sua situazione.
Riferisce di essere un funzionario dello Stato, spesso incaricato di operazioni di intelligence in Italia e all’estero rispetto alle quali mi chiede di mantenere riserbo e non approfondirne i contenuti, compiti comunque molto importanti e strategici, che però da qualche tempo non gli sono affidati senza che gliene venga fornita una ragione. Nel momento in cui ha cominciato a chiedere spiegazioni non ha trovato collaborazione nei suoi superiori affinché gli venisse chiarita una motivazione e soltanto dopo alcuni mesi di inattività gli è stata comunicato che avrebbe dovuto sottoporsi ad una commissione che valutasse la sua idoneità. Riferisce di avere il sospetto che tutto ciò possa essere la conseguenza di una serie di contrasti accaduti con alcuni colleghi nel momento in cui, dopo una missione molto lunga e stressante, questi ultimi gli avevano consigliato di non riferire informazioni delicate di cui era entrato in possesso che lui invece ha voluto condividere con i suoi superiori. Riferisce inoltre che un suo collega gli ha consigliato di contattare un professionista per un approfondimento sulla sua personalità da presentare alla commissione medica all’atto della sua convocazione.
Man mano che la persona prende confidenza e valuta il clima attorno a sé come accogliente e fiducioso l’eloquio diventa più accelerato, in certi momenti i contenuti diventano talvolta ripetitivi oppure eccessivamente cavillosi rispetto ad alcuni punti ed invece molto vaghi rispetto ad altri che sembrerebbero più importanti. A questo punto inizio a nutrire qualche dubbio sulla credibilità del resoconto fatto, per quanto per molti aspetti plausibile, sospettando che lo stesso sia il frutto di un’ideazione di stampo paranoide. Gli sottopongo la possibilità che questi test possano essere svolti in altra data, puntualizzando, come sempre faccio in questi casi, che il risultato degli stessi dovrà essere verificato se idoneo o meno a sostenere le sue tesi e in che misura; che stenderò un’eventuale relazione soltanto qualora, a mio insindacabile giudizio i dati, daranno informazioni utili ai suoi obiettivi. Altrimenti gli consegnerò i protocolli dei test, per gli usi che egli riterrà più opportuni.
L’incontro finisce con il consiglio di riflettere su quanto da me riferito per in seguito eventualmente rivederci per svolgere i test. La persona, contrariamente alle mie aspettative, dopo qualche tempo mi contatta nuovamente dichiarandosi disposta a sostenere le prove. In realtà il test somministrato è stato uno solo contrariamente a quanto normalmente avrei fatto, per i motivi che il lettore potrà comprendere leggendo il protocollo che segue e che successivamente verrà discusso.
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Alla luce di quanto fatto dal soggetto durante la fase di somministrazione del Rorschach è chiaro che la consulenza si è chiusa qui e non ha avuto seguito, per l’evidente impossibilità da parte mia di poter disporre di elementi potenzialmente utili ad affrontare la sua situazione, cosa sulla quale egli evidentemente non ha potuto che convenire rendendosi conto della “pochezza” di ciò che aveva prodotto alla prova Rorschach.
È stata anche una strategia la mia di proseguire il test fino alla fine, avendo capito prima quale sarebbe stata la conclusione, proprio per rendere alla persona palese il fatto che la valutazione non aveva fornito nessuna informazione utile. In realtà agli occhi di chi utilizza il test non soltanto osservando ciò che è stato prodotto, ma anche l’assenza delle informazioni più o meno attese e quindi ciò che non è stato prodotto e lo stile di approccio agli stimoli, il protocollo contiene una miniera di informazioni utili e in questo caso tutte convergenti. È stata la prima e unica volta in cui mi è capitato di non avere nessuna risposta al test, con dieci rifiuti, cosa mai verificatasi neanche con soggetti con problemi organici di un certo rilievo o con disturbi psichici molto gravi e invalidanti.
Come si è potuto verificare si tratta di un protocollo assolutamente unico nel suo genere, per l’assenza totale di risposte, associata ai commenti che il soggetto fa durante la Raccolta e il resoconto che la precedono, che confermano la diffidenza, il bisogno di controllo e la mancanza totale di fiducia nei confronti dell’esterno tipicamente associata a quadri paranoidi.
Nel caso di soggetti con problemi organici rilevanti può accadere che non comprendano il senso della prova, cioè che già alla consegna mostrino serie perplessità, e che alla prima Tavola manifestino l’incapacità di risolvere un problema per loro troppo complesso, non tanto da affrontare, quanto da comprendere. Quando la compromissione è meno seria il soggetto può avere difficoltà in alcune Tavole, può non dare molte risposte o darne di scadenti, ma non si verifica mai la loro totale assenza.
Anche soggetti con depressione seria ed invalidante riducono generalmente il numero di risposte e rifiutano stimoli soprattutto più complessi (IX, VI e X), ma anche in questo caso la minima energia disponibile consente associazioni e risposte banali e convenzionali.
Forme psicotiche con sintomi negativi possono prevedere una forma di rifiuto al test che a volte addirittura precede l’osservazione della prima Tavola o che si manifesta subito alla presentazione della stessa. Mentre altre forme meno ritirate e più produttive possono prevedere produzioni più o meno ricche a seconda del grado di destrutturazione della personalità.
Nella pratica mi è capitato molte volte di sottoporre al Rorschach persone inviate forzatamente soprattutto in ambito giuridico, quindi con bassa motivazione di accesso e modalità apertamente persistenti se non proprio ostili; ma anche in questi casi, contenendo le ansie e chiarendo la necessità e gli obiettivi della valutazione, la prova tende ad esser svolta con una produttività anche in questo caso può oscillare ed essere più o meno ricca a seconda delle risorse del soggetto, dell’intensità dei timori rimasti, ma mai anche in tali frangenti mi è mai capitato di avere zero risposte. In realtà il numero di risposte è un fattore importante per la prova Rorschach perché da questo dipende il calcolo, i rapporti e le percentuali di moltissimi indici del test tanto che alcuni metodi prevedono che il test non sia valido quando il numero scende al di sotto di un certo numero minimo (15 risposte per il sistema di J. Exner). Quando mi trovo in aule formative e anche giudiziarie spesso mi viene chiesto quale possa essere un minimo di interpretazioni affinché il test sia da considerarsi valido. La mia risposta è invariabilmente sempre la stessa, ossia che ciò è un falso problema in quanto possono essere indagate o si possono fare ipotesi dirimenti su aspetti della personalità anche quando le risposte sono molto scarse o come in questo caso totalmente assenti.
Non può esistere aprioristicamente un numero fisso al di sotto o al di sopra del quale io non prendo in considerazione ciò che è stato prodotto. Un basso numero di risposte ha sempre un senso.
Senso che l’esperto deve saper cogliere e interpretare alla luce di tutti gli altri fattori emersi dalla prova oltre a quelli anamnestici. Questo però è possibile solo se l’esperto utilizza un metodo che gli consente di trarre informazioni anche dallo stile con cui il soggetto si è prospettato alla prova, dai vissuti che questa stessa gli ha evocato e dall’assenza delle informazioni attese e dai contenuti latenti e non manifesti associati alle risposte e dall’analisi della sequenza delle stesse.
Mentre alcune psicologie si possono studiare grazie alla statistica, altre no. Ma non tutto ciò che non è “compreso” dalla e nella statistica deve essere ritenuto non valido, perché non esiste un individuo o una persona non valida.
Nel caso specifico giunge alla somministrazione particolarmente motivato e questo è un dato che dà senso e fa da contorno a tutto il resto. Perché, fosse anche per l’istruzione che ha riferito ed i viaggi che dice di aver fatto, è impossibile non riuscire a trovare in memoria nessuna associazione con le dieci macchie del test.
Come si è potuto comunque leggere, nonostante l’assenza di risposte il soggetto fa una serie di commenti, che seppur minimi, sono dal nostro metodo comunque siglati, dando di conseguenza indicazioni ben precise. Tale parte della siglatura confluisce in quella che viene definita “quinta colonna” ossia una parte importantissima che consente di chiarire il senso di realtà attraverso la decodifica di commenti, sensazioni, vissuti, specifiche, accezioni che il soggetto può fare rispetto a ciò che vede o più semplicemente alla macchia in sé. In questa colonna in gergo tecnico sono presenti le Manifestazioni particolari, le Risposte complessuali e gli Choc, tutti elementi che non danno un numero statistico, ma consentono una lettura qualitativa che aiuta a verificare l’alterazione più o meno sensibile del senso di realtà e di conseguenza il livello più o meno primitivo delle difese[1].
In questo caso lo stile è evidentemente resistente ed evitante in modo tanto pervasivo da non modificarsi in nessuna macchia e conferma che, per il soggetto, qualsiasi stimolo con cui entra in contatto è qualcosa da cui difendersi, piuttosto che da accogliere ed elaborare e restituire. Evidentemente da subito il soggetto ha percepito qualcosa che non poteva controllare, ossia uno stimolo ambiguo che non gli ha consentito di riuscire a capire che informazioni di sé avrebbe dato “interpretandolo”. La situazione di allerta che ne è scaturita ha chiuso qualsiasi cosciente canale di comunicazione, di condivisione e di potenziale scambio, condizione questa che invariabilmente porta ad un progressivo prosciugamento delle fonti psichiche profonde, con deflessione del tono dell’umore e disinvestimento affettivo.
In realtà l’inconscio è così grande nei suoi tanti modi più o meno espliciti di manifestarsi e la potenza delle macchie, assimilabile ad una “trappola” ben architettata per rispecchiare fedelmente quello che c’è dentro di noi, che anche in questo caso si è creato un connubio virtuoso che ha consentito di ottenere informazioni.
E quindi le Manifestazioni particolari siglate convergono tutte verso la diffidenza, la sospettosità ed il controllo raziocinante (IS: Illusione di somiglianza; GR: Guardare la tavola sul retro, RS: Rilievo di simmetria; VA: Valutazione), una dimensione profonda negata, sia depressiva (NA: Attrazione per il nero) sia pulsionale aggressiva (AR: Attrazione per il rosso), ma che a tratti emergono attraverso l’ostilità repressa e la critica all’altro (CO: Critica all’oggetto).
Concludendo questa breve condivisione, ancora oggi mi chiedo ogni tanto quanta parte di quello che il soggetto ha raccontato fosse in qualche modo veritiera oltre che plausibile, e quanto la sua copertura e censura al test non fosse altro che un tratto adattivo nel suo specifico contesto professionale, che io invece ho valutato disadattivo per “deformazione professionale”.
Sorrido
poi all’idea che il tutto possa essere stato uno scherzo architettato da un
collega che voleva mettermi in difficoltà e che per questo motivo ha assoldato
uno straordinario attore che ha recitato una parte in modo impeccabile.
[1] “Il Test di Rorschach. Manuale di Raccolta, Siglatura e Diagnosi”, a cura di R. Cicioni, Ed. Kappa Roma 2016.
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